NewsLetter N.4/2024

STATO DI MALATTIA: 
È LEGITTIMO IL LICENZIAMENTO DEL DIPENDENTE IN CASO DI CONTESTUALE SVOLGIMENTO DI ALTRA ATTIVITÀ LAVORATIVA
 
Corte di Cassazione Civile, sez. lav., sentenza 26 gennaio 2024 n. 2516
 
In tema di licenziamento per giustificato motivo soggettivo e per giusta causa, la Suprema Corte di Cassazione – Sez. Lavoro – con sentenza 26 gennaio 2024 n. 2516, ha ribadito la legittimità del licenziamento per giusta causa ex art. 2119 c.c irrogato dal datore di lavoro in pendenza  del periodo di comporto, allorquando sia fondato su una accertata violazione dei doveri di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, in ragione dello svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente durante il periodo di assenza per malattia. 
 
Come è noto, lo stato di malattia del lavoratore comporta un periodo di sospensione del rapporto di lavoro, nonché un periodo di conservazione del rapporto stesso - cd. periodo di comporto -, la cui durata è stabilita dalla contrattazione collettiva.
 
In ossequio a quanto previsto dall’art. 2110 c.c., dettato in materia di trattamento spettante al lavoratore in caso di malattia, è vietato il recesso durante il periodo di comporto in deroga al principio della libera recedibilità nel contratto di lavoro a tempo indeterminato in relazione a quanto previsto dall’art. 2118 c.c. 
 
Pertanto, in ragione del diritto alla conservazione del posto di lavoro sancito dall’art. 2110, l’eventuale licenziamento intimato durante il periodo di malattia è altresì inefficace, e tale inefficacia cessa solo una volta decorso il periodo massimo di comporto, ovvero della cessazione della malattia.
 
Tuttavia, secondo un’opinione più che consolidata in dottrina e in giurisprudenza si ritiene che, in costanza di malattia, rimanga fermo l’esercizio della facoltà di recesso per giusta causa da parte del datore di lavoro, potendo in tal senso intervenire legittimamente lo scioglimento del vincolo contrattuale a fronte della riscontrata esistenza di una causa che non consenta la prosecuzione, neppure in via temporanea, del rapporto di lavoro.
 
Nel caso di specie, il dipendente impugnava il licenziamento per motivi disciplinari intimatogli a fronte dell’accertato svolgimento da parte del medesimo, assente per certificata malattia, di prestazioni lavorative presso l’attività commerciale della coniuge.
 
La predetta domanda è stata rigettata nei primi due gradi di giudizio, essendo stato ritenuto legittimo il recesso del datore di lavoro giustificato da un comportamento del lavoratore contrario ai canoni generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, ex artt. 1175 e 1375, che costituiscono elementi imprescindibili e coessenziali al rapporto di lavoro.
 
Nel confermare la statuizione della Corte d’Appello, la Corte di Cassazione ha ribadito la lettura interpretativa secondo cui può (in astratto) costituire giustificato motivo di recesso il comportamento del dipendente che presti attività lavorativa durante il periodo di assenza per malattia nel caso in cui l’attività lavorativa svolta a favore di terzi faccia emergere, sulla scorta di un accertamento di merito adeguatamente motivato, non sindacabile in sede di legittimità, l'inesistenza della malattia, anche alla luce di elementi indiziari che siano gravi, precisi e concordanti tali da far ritenere l’attività lavorativa svolta incompatibile con lo stato predetto.
 
La Suprema Corte inoltre ha aggiunto che la giusta causa di recesso sussiste anche nel caso in cui la medesima attività risulti anche solo potenzialmente idonea a ritardare la guarigione ovvero a posticipare il rientro in servizio, e ciò all’esito di una valutazione operata ex ante dal giudice di merito in ordine all’incidenza della prestazione resa in favore di terzi dal dipendente rispetto ad un tempestivo recupero della continuità lavorativa e alla sollecita ripresa delle attività lavorative a cui il ricorrente è contrattualmente obbligato.
 
In ragione di tali argomentazioni, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso proposto dal lavoratore e ha confermato integralmente le statuizioni di primo e secondo grado ribadendo la legittimità del recesso esercitato dal datore di lavoro.
 
In conclusione, nella pronuncia in esame il giudice di legittimità non si è discostato dal prevalente orientamento giurisprudenziale in materia ed a nulla sono valse le domande e le eccezioni riferite all’attività di sussunzione e di valutazione operata dal giudice di merito svolte dal ricorrente.
   
Nel caso di specie, infatti, il licenziamento disciplinare intimato è stato ritenuto da un lato fondato sulla violazione dei principi generali di correttezza e buona fede nonché degli specifici obblighi scaturenti dal rapporto di lavoro e, dall’altro, proporzionato alla gravità della condotta tenuta dal lavoratore consistente nell’avere il medesimo prestato per due giorni attività lavorativa presso l'attività commerciale della coniuge. Il tutto, durante un periodo di assenza per malattia della durata di una settimana, considerato idoneo anche solo astrattamente a posticipare il rientro in azienda e, pertanto, sufficiente a legittimare il licenziamento disciplinare. 
 
Autore: Dott.ssa Francesca Rosa