Aspetti penalistici del consenso informato in ambito medico

La relazione tra medico e paziente ha conosciuto un'evoluzione significativa in quanto quest'ultimo, da mero oggetto dell'attività medica in un'ottica di stampo prettamente paternalistico, è divenuto soggetto attivo della relazione e del percorso terapeutico.

La formula - di origine dottrinaria - di "alleanza terapeutica" ben esprime tale cambio di prospettiva, qualificando il rapporto medico-paziente con l'assenza di asimmetria del rapporto suddetto. In tale ottica, il paziente non si limita a seguire meramente quanto prescritto dal medico, ma risulta investito del compito di decidere attivamente circa il trattamento da praticare, decidendo non solo in base a quanto medicalmente indicato, ma anche secondo la propria sensibilità etica, morale o religiosa.

Il fondamento del consenso informato risiede nel combinato disposto di cui agli artt. 3, 13 e 32 Cost, i quali esprimono interessi per lungo tempo concepiti come contrapposti: il diritto alla salute, in quanto pretesa a ricevere l'assistenza medica necessaria al miglioramento del proprio stato psico-fisico di benessere; il diritto all'autodeterminazione, come libertà da eventuali ingerenze corporee non autorizzate dal diretto interessato. Tantoché, nel momento in cui il diritto all'autodeterminazione si traduceva nel rifiuto o la richiesta di interruzione di un trattamento medico-sanitario, esso veniva interpretato come vera e propria rinuncia al diritto di essere curato.

Seppur riconosciuto a livello nazionale e sovranazionale, il consenso ha trovato esplicita codificazione solo con la più recente L. 22 dicembre 2017, n. 219, c.d. Legge sul Biotestamento, recante "Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento". La legge, intervenuta al termine di un lungo e travagliato iter, riconosce a livello normativo alcuni principi già elaborati dalla giurisprudenza a seguito di casi di forte rilevanza mediatica. La legge disciplina, in particolare, in tema di consenso informato circa gli accertamenti diagnostici ed i trattamenti sanitari ed ha introdotto le disposizioni anticipate di trattamento (DAT), insieme all'istituto della pianificazione condivisa delle cure.

Il tema della rilevanza penale del trattamento terapeutico, in particolare in relazione al consenso informato del paziente, ha assunto sempre maggior rilievo. Nell'ipotesi in cui il medico pratichi un trattamento senza prima aver debitamente acquisito il consenso del paziente si configura il c.d. trattamento medico arbitrario. A tal proposito, dunque, è necessario analizzare alla luce dell'evoluzione della disciplina giuridica, sia dottrinaria sia giurisprudenziale, con particolare attenzione alle problematiche connesse al rifiuto di cure. Anche il presupposto del rifiuto di cure deriva dal principio del consenso informato, inteso come elemento fondamentale della garanzia di disponibilità individuale sulle scelte esistenziali che attengono al proprio corpo. Come si vedrà, tale principio è stato consacrato prima di tutto a livello giurisprudenziale, senza mai arrivare all'esplicita ammissione di liceità delle pratiche eutanasiche nel nostro ordinamento giuridico.

L'eutanasia – dal greco eu-thanatos dolce morte – definisce la soppressione dell'altrui esistenza pietatis causa con il consenso del soggetto interessato, al fine di far cessare le

sofferenze in cui versa lo stesso. A tal proposito, è necessario distinguere tra a) pratiche di eutanasia c.d. attiva, le quali contemplano le ipotesi di soppressione della vita altrui mediante condotte commissive, punibili ex artt. 579 o 575 c.p.; b) pratiche di eutanasia c.d. passiva, le quali ricomprendono i casi di sospensione dei trattamenti sanitari di sostegno vitale mediante condotte omissive, tale per cui l'evento morte risulta causato dal decorso naturale della malattia e c) pratiche di eutanasia c.d. indiretta, le quali consistono nella somministrazione di farmaci analgesici che permettono di abbreviare la vita del paziente e le quali si distinguono dall'eutanasia attiva, nonostante si tratti pur sempre di una condotta commissiva, per il fatto che la morte sopraggiunga come effetto indiretto delle cure palliative volte a lenire il dolore e non alla soppressione dell'esistenza altrui.

Nella sua interpretazione più radicale, si è tentato di intendere il suicidio come diritto costituzionalmente garantito ai sensi dell'art. 2 Cost. azionabile nei confronti dello Stato, arrivando a configurare un vero e proprio diritto a morire, inteso come espressione del diritto alla vita in chiave negativa. Tuttavia, tale tesi è stata ampiamente e unanimemente respinta dalla giurisprudenza, finanche dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo. Emblematico, in tal senso, il caso Pretty contro Regno Unito in cui la Corte respinge l'interpretazione dell'art. 2 della CEDU secondo la quale, nel tutelare il diritto alla vita, garantirebbe anche la sua dimensione negativa (Corte Europea dei Diritti dell'Uomo - Pretty v. UK 29.04.2002, ric. n.2346/2002).

Dunque, in tema di responsabilità medica è necessario analizzare l'evoluzione giurisprudenziale, che si è sviluppata attorno a due nuclei fondamentali:

1. Profili di rilevanza penale nella condotta del sanitario in caso di trattamento arbitrario su paziente capace

2. Trattamenti sanitari e pratiche di fine vita

Riferimenti normativi:

• Convenzione europea di bioetica di Oviedo, art. 5

• Carta dei diritti fondamentali dei cittadini dell'Unione Europea, art.3

• Costituzione, artt. 2, 13 e 32

• Codice penale artt. 43, 51, 580,582, 584, 590, 605, 610 e 613

• Legge sul Biotestamento n. 219 del 2017

• Codice di Deontologia Medica, artt. 33 e 35

1. Il consenso informato come presupposto di liceità del trattamento medico- chirurgico
La perfetta sintesi tra il diritto alla salute ed il diritto all'autodeterminazione rivive nell'istituto del consenso informato nelle interpretazioni, dapprima, della giurisprudenza civile, in particolare di quella di legittimità, e, poi, della Corte costituzionale. La Corte Costituzionale seguirà la copiosa giurisprudenza della Cassazione, che già aveva posto il consenso informato alla base della legittimazione di qualunque intervento medico. Infatti, il principio individuato dalla locuzione "consenso informato" si è gradualmente affermato quando i giudici di legittimità nel 1967 stabilirono che "fuori dei casi di intervento necessario il medico nell'esercizio della professione non può, senza valido consenso del paziente, sottoporre costui ad alcun trattamento medico-chirurgico suscettibile di porre in grave pericolo la vita e l'incolumità fisica" (Cass. civ. sez. III 25.07.1967 n. 1945).

La giurisprudenza è unanime nel riconoscere in capo al sanitario il preciso dovere di acquisire preliminarmente il consenso informato del paziente adulto e capace al trattamento medico. Tale obbligo discende da precise disposizioni normative, senza riconnettervi una responsabilità penale per l'inosservanza di tale obbligo da parte del medico. A tal proposito, è utile analizzare il contrasto giurisprudenziale circa l'individuazione delle eventuali conseguenze sul piano penalistico dell'inosservanza dell'obbligo di informare ed acquisire il consenso del paziente, di fronte al silenzio del legislatore.

Parte della giurisprudenza di legittimità più risalente, il c.d. "orientamento Massimo", individuava in ogni intervento chirurgico che generi una considerevole, anche se transitoria, menomazione funzionale nell'organismo del paziente, la causa della "malattia" ai sensi delle norme in tema di lesioni personali, indipendentemente dall'esito fausto o infausto dell'intervento e, dunque, anche in caso di miglioramento della salute del paziente, arrivando a prefigurare il dolo diretto delle lesioni personali (necessario per configurare la fattispecie di omicidio preterintenzionale) in capo al sanitario (Cass. Pen., Sez. V, 21.04.1992, n. 5639, caso Massimo).

Un'interpretazione della Suprema Corte del 2001, il c.d. orientamento Barese, discostandosi dalla precedente consolidata giurisprudenza, condannava, poi, il medico non per omicidio preterintenzionale, ma per omicidio colposo, non essendo nelle intenzioni del medico cagionare una lesione al paziente, delineando una differente nozione di "malattia", facente leva sull'esito infausto del trattamento.

La precedente giurisprudenza viene nuovamente avallata dai giudici di legittimità, i quali statuiscono a chiare lettere che nel caso di trattamento chirurgico eseguito senza il consenso del paziente, il delitto di lesioni personali ricorre nel suo profilo oggettivo, indipendentemente dall'esito, dallo scopo di cura e da condotta esente da colpa del medico, ledendo l'integrità corporea del paziente.

In occasione del caso Volterrani, la Cassazione tenta di risolvere il conflitto giurisprudenziale in modo tranchant, formulando il principio dell'intrinseca liceità del trattamento medico- chirurgico, indipendentemente dal suo esito (fausto o infausto) - di fatto, discostandosi dall'orientamento fino ad allora prevalente - qualora si riconosca, in concreto, nella condotta del sanitario "la completa e puntuale osservanza delle regole proprie della scienza e della tecnica medica". Ciò stesso sarebbe bastato a fare escludere ogni responsabilità penale del medico, a prescindere dalla volontà del paziente, la quale avrebbe rilevanza giuridico-penale, solo nel caso in cui esso avesse manifestato un espresso rifiuto del trattamento; ed anche in una circostanza siffatta, il medico che decidesse di eseguire ugualmente l'intervento risponderebbe a titolo di violenza privata. L'orientamento succitato non ha, tuttavia, ottenuto molto seguito.

L'impostazione giurisprudenziale Barese viene nuovamente abbracciata dalla Corte di Cassazione nel 2008, la quale, ribadendo che il consenso del paziente rappresenti presupposto di liceità del trattamento, non si limita a confermare l'esclusione di responsabilità penale per il medico che intervenga in assenza di consenso (in quanto esso agisce con finalità curative per se stesse incompatibili con il dolo delle lesioni), ma arriva ad manifestare chiaramente che l'acquisizione del consenso da parte del sanitario è un dovere la cui inosservanza risulta indifferente ai fini del diritto penale (Cass. Pen., Sez. IV, 24.06.2008, n. 37077).

Prima dell'intervento chiarificatore delle Sezioni Unite, il Supremo Collegio si discosta ancora dai precedenti orientamenti. La Corte di Cassazione, infatti, in caso di consenso mancante o invalido da parte del paziente, riconosce rilevanza giuridico-penale al relativo trattamento del medico, in quanto compiuto dallo stesso in violazione della sfera privata del paziente e del suo diritto a prestare assenso ad interventi estranei sul proprio corpo. Tale postulato trae fondamento dall'orientamento dottrinario del rischio consentito, secondo il quale il consenso reso dal paziente vale ad escludere la responsabilità per colpa del sanitario che abbia cagionato al paziente lesioni personali, pur agendo nel rispetto delle leges artis. Nel 2008 le Sezioni Unite intervengono ....continua la lettura in Plusplus24Diritto