Quote di genere, non quote rosa!

L’idea di scrivere un breve commento in materia di “quote di genere” ha iniziato a balenarmi in mente da qualche tempo, ma dopo essere stata invitata ad un incontro su questo tema e aver ascoltato diverse opinioni di imprenditori, economisti, psicologi e giornalisti, ho ritenuto opportuno approfondire l’argomento anche da un punto di vista prettamente giuridico.
Affermare che nel corso degli anni il sesso femminile è sempre stato considerato su di un piano inferiore rispetto a quello maschile non è certo una novità, ma rendersi conto del fatto che per garantire anche al “sesso debole” un’adeguata partecipazione alla vita economica e politica del nostro Paese è stata necessaria l’introduzione di una legge ad hoc, lascia molto perplessi. Molte donne, infatti, all’indomani dell’entrata in vigore della legge 120 del 2011, si sono risentite per essere state ammesse nei consigli di amministrazione e nei collegi sindacali delle società quotate solo perché prescritto da  una  normativa  cogente.  Dal  canto loro gli uomini, già abituati da decenni a ricoprire questo tipo di ruoli, hanno accettato passivamente tale novella legislativa, convinti in cuor loro che la piccola percentuale di presenza “rosa” all’interno degli organi sociali avrebbe influito solo marginalmente sulle loro abitudini lavorative e di carriera.
Tale breve commento non vuole in alcun modo sopravvalutare il genere femminile o svilire quello maschile, ma si propone di fare il punto di quanto fatto fino a questo momento, in modo da verificare se è possibile agevolare, anche se purtroppo con interventi normativi, l’ingresso delle donne in ambienti finora quasi del tutto inaccessibili.
Per fare un piccolo paragone con quello che è accaduto negli altri “grandi” Stati Europei, bisogna distinguere quei Paesi (ad esempio il Regno Unito, l’Olanda e la Germania) che hanno tentato di tutelare il genere femminile in maniera più “soft” emanando semplici raccomandazioni e lasciando quindi a ciascuna società la scelta, dagli altri (primi fra tutti la Spagna e la Francia) che hanno ritenuto opportuno inserire uno specifico obbligo in tale senso. L’Italia ha preferito seguire l’esempio degli Stati più vicini introducendo per la prima volta nel 2011 (!) una norma atta a tutelare l’equilibrio di generi all’interno dei consigli di amministrazione e dei collegi sindacali delle società quotate1.
Infatti, la prima legge che ha riconosciuto alle donne il potere/dovere di far parte dei consigli di amministrazione e dei collegi sindacali delle società quotate è la legge n. 120 del 12 luglio 2011, più comunemente conosciuta come legge Golfo- Mosca, dal nome delle sue due parlamentari (naturalmente donne!) che la hanno promossa. La suddetta norma ha inserito due ulteriori commi all’art. 147ter del Testo Unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (Decreto Legislativo n. 58 del 24 febbraio 1998). Anche da una lettura superficiale della novella legislativa, ci si rende conto che in tutto il testo normativo non vengono mai utilizzate le parole “donna”, “quote rosa”,… il testo legislativo, infatti, parla solo ed esclusivamente di “genere meno rappresentato”, senza aggiungere altro. Sarebbe retorico chiedersi perché tale norma viene generalmente identificata come la “legge delle quote rosa” se nella stessa non vi è alcun elemento in tal senso!
Altro elemento degno di nota è quello relativo all’entrata in vigore della norma: promulgata nel luglio del 2011, entrata in vigore nell’agosto dello stesso anno, ha iniziato a spiegare  i suoi  effetti solo  un anno  dopo (circostanza che nell’ordinamento italiano è del tutto anomala e rara!). A ciò deve inoltre aggiungersi che l’obbligo imposto dalla legge è applicabile solo in sede di rinnovo degli organi di amministrazione e controllo: dunque se è entrata in vigore ad agosto del 2012, solo le società che hanno rinnovato i propri organi sociali successivamente a detta data, sono soggette all’applicazione della legge Golfo-Mosca. Se ciò non fosse ancora sufficiente per sottolineare il livello di arretratezza del nostro Paese in tale settore, bisogna riflettere sul fatto che tale legge prevede che il “genere meno rappresentato” sia presente per il primo anno nella misura di un quinto, e successivamente nella maggior misura di un terzo, e solo per un numero limitatissimo di mandati, appena tre: ciò significa che gli obblighi di cui sopra resteranno in vigore solamente per nove anni. È dunque lecito chiedersi cosa accadrà allo “scadere” della legge? Il genere più rappresentato lascerà spazio, anche in mancanza di uno specifico obbligo in tal senso, alle donne?
Altro elemento che merita particolare attenzione è quello dell’eventuale procedimento sanzionatorio che si apre a carico delle società inadempienti. Nel momento in cui la Commissione Nazionale per la Società e la Borsa (Consob) verifica che le disposizioni normative di cui sopra  non sono rispettate, provvede innanzitutto a diffidare la società
“incriminata” invitandola ad adeguarsi alla legge, entro un termine variabile ma comunque non superiore a quattro mesi. In caso di inottemperanza alla missiva la Commissione commina una pena pecuniaria compresa tra i 10.000,00 e 1.000.000,00 di euro nei casi di mancato rispetto della legge nell’elezione dei consigli di amministrazione e tra i 20.000 e i 200.000,00 euro per i collegi sindacali. In caso di reiterato inadempimento, la Consob può dichiarare decaduti i componenti degli organi in carica.
I motivi per cui il legislatore ha deciso di introdurre tale “rivoluzione” all’interno del panorama giuridico italiano, in maniera graduale e mostruosamente lenta, è facilmente immaginabile, quello che lascia non poco perplessi  è  il fatto che il legislatore ha da sempre cercato di incentivare l’imprenditoria femminile prevedendo agevolazioni di qualsiasi specie, ma abbia atteso così a lungo per concedere anche alle donne il potere di entrare “nella stanza dei bottoni” delle società per azioni quotate.
All’indomani dell’entrata in vigore della legge in commento, da molte parti ci si è chiesto se tale legge era “necessaria”, o se al contrario si potevano raggiungere gli stessi scopi diversamente. Con molta probabilità, se l’Italia avesse voluto dimostrare di essere un Paese civile e moderno, avrebbe potuto sollecitare e non imporre scelte di tal genere, ma se si è arrivati a dover rendere obbligatoria la presenza “rosa” all’interno delle società quotate, significa evidentemente che senza l’intervento legislativo cogente, non si sarebbe raggiungo il risultato auspicato. È pertanto opportuno cogliere il lato positivo della questione e sperare che le soglie indicate dalla legge siano solamente delle soglie minime, e che la realtà dei fatti supererà le previsioni normative.

Dott.ssa Nicoletta Mancusi

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