Fino a che punto la legge sulla canapa apre alla sua commercializzazione?

La legge 2 dicembre 242/2016 – disposizioni per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa – ha rilanciato, a distanza di 60 anni, la filiera della canapa industriale in Italia, Paese che fino alla Seconda Guerra Mondiale, con 90 mila ettari coltivati sul territorio nazionale, produceva più canapa di quanta oggi se ne produca a livello mondiale.

La riabilitazione legale della canapa industriale muove dal compiuto, seppur tardivo, recepimento legislativo delle enormi potenzialità di questa coltura che, ove promossa e sostenuta, è in grado di contribuire ‘‘alla riduzione dell’impatto ambientale in agricoltura, alla riduzione del consumo dei suoli e della desertificazione e alla perdita della biodiversità’’ (art. 1, comma I).

Il novum legislativo ha riconosciuto più ampie forme di tutela nei confronti degli agricoltori per i quali è previsto l’esonero da responsabilità qualora all’esito di un controllo a campione condotto dal Corpo forestale dello Stato, il contenuto complessivo di THC della coltivazione risulti superiore allo 0,2% ed entro il 0,6% (art. 4, comma V).

Lo stesso effetto escludente si realizza altresì nel caso in cui la soglia dello 0,6% risulti superata, con la differenza che nell’indicata evenienza l’autorità giudiziaria sarà legittimata a disporre il sequestro o la distruzione delle coltivazioni (art. 4, comma VII).

La previsione di un ‘‘range’’ di oscillazione funge da ‘‘cuscinetto’’ per la responsabilità del coltivatore in ragione della varietà dei caratteri morfo-fisiologici delle piante di canapa che può essere riscontrata anche all’interno di uno stesso campo (le piante in bordura, ad esempio, per ragioni prevalentemente connesse alla maggiore esposizione solare, presentano un più elevato livello di THC rispetto a quelle cresciute al centro del fondo).

La Legge 242/2016 della quale si è nei suesposti termini tratteggiata la disciplina, reintroducendo, a pieno titolo, la canapa negli ordinamenti colturali e nelle filiere agroindustriali italiane, è stata complessivamente salutata con estremo favore, sebbene non possa dirsi esente da rilievi critici.

In particolare, il vero e proprio nodo gordiano della L. 242/2016 è rappresentato dal silenzio legislativo serbato alla liceità o meno dell’utilizzo delle infiorescenze della canapa, ossia la parte apicale della pianta e di maggior valore della biomassa in cui si concentrano centinaia di principi attivi – flavonoidi, terpenoidi, cannabidiolo (CBD) – di notevole interesse per impieghi nutrizionali, cosmetici, salutistici e terapeutici della canapa.

Invero, nell’originaria formulazione del testo di legge, l’elenco indicante ciò che possibile ottenere dalla coltivazione della canapa di cui all’articolo 2, comma II – rubricato ‘‘liceità della coltivazione’’ –, prevedeva l’esplicito riferimento, poi depennato dalla versione definitiva, alla ‘‘produzione di infiorescenze fresche ed essiccate per scopo floreale o erboristico’’.

L’odierna formulazione della Legge, nulla più disponendo circa la liceità o meno dell’uso industriale delle infiorescenze, ha generato un ‘‘vulnus regolamentare’’ da cui un ristretto numero di realtà imprenditoriali ha disinvoltamente ricavato l’assist per affacciarsi al mercato delle infiorescenze di canapa a contenuto legale di THC – sotto lo 0,6%, – e ad alto contenuto – intorno al 4% – di cannabidiolo (CBD) al quale non sono associati i classici effetti psicoattivi ma proprietà miorilassanti, antipsicotiche, tranquillanti, antiepilettiche, antiossidanti e antinfiammatorie –.

Rotti gli indugi dalle ‘‘apripista’’, una crescente pletora di imprese ha rapidamente ingrossato le fila di un nuovo modello di business – apparentemente inarrestabile, quantunque ai limiti della legalità – che, nel silenzio della legge, ha assistito alla proliferazione di un’autoregolamentazione selvaggia, a detrimento della qualità, della tracciabilità ed etichettatura del prodotto oltre che della tutela del consumatore.

In tal guisa, è in via di regolamentazione autocratica che le predette imprese hanno smaliziatamente ricondotto la destinazione d’uso delle infiorescenze di canapa nella generica quanto imprecisata formula ‘‘uso tecnico, non medicinale, alimentare o da combustione’’ allo scopo – provocatoriamente palesato – di sottrarre il prodotto ai controlli previsti per le merci destinate ad ‘‘uso umano’’ – come, ad esempio, quelli riguardanti l’origine del prodotto, le caratteristiche del suolo, la presenza di pesticidi, metalli pesanti, parassiti e muffe, il confezionamento, lo stoccaggio, la scadenza –.

Se da un lato, quindi, le infiorescenze di canapa a contenuto legale di THC non possono essere vendute per essere fumate – in quanto prodotti ‘‘non da combustione’’, sebbene questo sia l’utilizzo principale che ne viene fatto –, dall’altro, l’assenza di specifiche norme sulla sicurezza dei prodotti ha spinto il consumatore a fare esclusivo affidamento nella professionalità e buona fede del produttore.

In difetto di una intelaiatura normativa atta a sostenere la descritta intraprendenza imprenditoriale, parte dei primi commentatori della Legge, nel tentativo di fornirle una meno evanescente copertura giuridica, ha – più o meno fondatamente – osservato che:

 

  • è ragionevolmente invocabile l’assunto giuridico per cui ‘‘tutto ciò che non normato o vietato è implicitamente autorizzato’’;
  • alla norma di salvaguardia di cui all’art. 4, comma V – che prevede l’esonero da responsabilità per l’agricoltore qualora all’esito di un controllo a campione il contenuto complessivo di THC della coltivazione risulti superiore allo 0,2% ed entro il 0,6% –, sebbene originariamente concepita per il coltivatore, va in concreto riconosciuto un più ampio spettro di afferenza tale da estendere l’effetto escludente anche alla successiva attività di commercializzazione del prodotto ove conforme ai suindicati limiti;
  • il divieto di utilizzo industriale delle infiorescenze di canapa sortirebbe l’effetto, in aperto contrasto con lo spirito che ha animato la Legge, di depauperare il patrimonio molecolare della risorsa;
  • il predetto divieto si tradurrebbe in uno svantaggio concorrenziale per i canapicoltori italiani rispetto ai colleghi degli altri Paesi Ue.

 

Il mercato dei prodotti derivanti dalle infiorescenze, per quanto con un approccio raramente consapevole alle descritte problematiche, ha oggi raggiunto un tale livello di espansione da necessitare di una etero - regolamentazione normativa.

L’auspicio rivolto al Legislatore è pertanto quello di un celere intervento chiarificatore che, oltre ad assicurare oggettività e certezza alla Legge 242/2016, fornisca garanzie di qualità per i consumatori e sicurezza per gli investimenti – che, ove regolamentati, potrebbero portare, stando ad autorevoli stime, un fatturato di 44 milioni di Euro annui, 1.000 posti di lavoro stabili e 6 milioni di Euro l’anno di entrate fiscali per Stato –.