Controlli a distanza e consenso dei lavoratori: la Cassazione fa dietrofront

Con la sentenza n. 22148 dell’8 maggio 2017, la Corte di Cassazione penale muta radicalmente in proprio orientamento in tema di controllo a distanza dei lavoratori.

Promuoveva infatti ricorso la titolare di un negozio che si era sentita condannare a seguito dell’installazione, all’interno dei luoghi di lavoro un impianto di videoripresa costituito da due telecamere, collegate ad un dispositivo Wi-Fi, ed un monitor, in grado di trasmettere le immagini di ripresa a tale sistema, senza la previa stipulazione di un accordo con le rappresentanze sindacali ed in assenza dell’alternativa autorizzazione della direzione territoriale del lavoro.

La titolare del negozio era infatti stata condannata al pagamento di un’ammenda di 600 euro per la violazione di quanto sancito dall’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, avendo infatti proceduto all’installazione di un impianto di controllo a distanza sulla base del mero consenso orale dei lavoratori al trattamento dei propri dati personali.

La sentenza di condanna veniva dunque impugnata muovendo dall’analisi del prevalente orientamento giurisprudenziale in materia – con espresso riferimento alla sentenza Banti (Cass. Pen, Sez. III, 17 aprile 2012, n. 22611) – secondo cui il reato contestato è da ritenersi insussistente ogniqualvolta, pur in mancanza di un preventivo assenso delle rappresentanze sindacali, venga comunque riconosciuta la presenza di un consenso validamente espresso da parte dei lavoratori interessati.

Ricostruendo il contesto normativo di riferimento si evidenzia come, in tema di divieto di uso di impianti audiovisivi e di altri strumenti da cui discenda anche la possibilità di un controllo a distanza dei lavoratori, sussiste continuità di tipo di illecito tra la previgente fattispecie – prevista dagli arrt. 30, comma 1, dello Statuto dei Lavoratori e dagli artt. 114 171 del D.Lgs. n. 196 del 2003 – e quella attualmente vigente, parzialmente ridimensionata dall’art. 23 del D.Lgs. n. 151 del 2015 (attuativo di una delle deleghe contenuto nel c.d. Jobs Act), avendo la normativa sopravvenuta mantenuto immutata la disciplina sanzionatoria per cui la violazione del citato articolo 4 è penalmente sanzionata ai sensi dell’art. 38. 

Difatti, anche la disposizione recentemente introdotta sancisce la necessità per cui l’installazione di apparecchiature – di impiegare esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale ma da cui, in concreto, derivi la possibilità di un controllo a distanza dell’attività dei lavoratori – sia preceduta da una forma di codeterminazione, un accordo, tra il datore di lavoro e le rappresentanze sindacali dei lavoratori, con la conseguenza che, ogniqualvolta tale accordo collettivo non venga raggiunto, il datore di lavoro, prima di procedere all’installazione, è tenuto a presentare apposita richiesta di un provvedimento autorizzativo alla Direzione territoriale del lavoro.

In assenza di accordo o dell’alternativo provvedimento di autorizzazione, l’installazione dell’apparecchiatura è illegittima e penalmente sanzionata. 

In tale contesto, la summenzionata sentenza Banti (precedente all’emanazione del Jobs Act) ha dato impulso all’affermazione giurisprudenziale del principio in forza del quale non integra il reato di cui all’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori l’installazione di un sistema di videosorveglianza potenzialmente in grado di controllare a distanza l’attività dei lavoratori, la cui attivazione, in assenza dell’accordo con le rappresentanze sindacali, sia preventivamente autorizzata per iscritto da tutti i dipendenti. 

Si sosteneva pertanto la portata scriminante del consenso scritto, ritenendo illogico negare la validità di un consenso chiaro ed espresso proveniente dalla totalità dei lavoratori. 

La Corte muoveva infatti dal rilievo per cui il fine ultimo del citato art. 4 dovesse essere quello di tutelare i lavoratori da forme subdole di controllo della loro attività da parte del datore di lavoro e che, salvo voler dare un’interpretazione eccessivamente formale, se tale rischio era scongiurato in presenza di un consenso di organismi di categoria rappresentativi, a maggior ragione tale consenso doveva ritenersi validamente prestato se proveniente da tutti i dipendendo, posto, inoltre, che l’esistenza di un consenso validamente prestato da parte del titolare del bene protetto esclude automaticamente l’integrazione dell’illecito.

Proprio questa lettura della norma, e del conseguente orientamento giurisprudenziale, viene totalmente ribaltata dalla sentenza in commento, la quale sottolinea come questa – al pari di ogni altra norma che richieda l’intervento delle rappresentanze sindacali dei lavoratori – tuteli interessi di carattere collettivo e superindividuale. 

Pertanto, una condotta del datore di lavoro come quella del caso di specie – installazione di impianti da cui possa derivare un controllo a distanza dei lavoratori senza previa interlocuzione con le rappresentanze sindacali unitarie od aziendali – produce l’oggettiva lesione degli interessi collettivi di cui le rappresentanze sono portatrici, in quanto, sempre nel caso di specie, deputate a riscontrare se gli impianti audiovisivi di cui il datore di lavoro intende avvalersi abbiano o meno l’idoneità a ledere la dignità dei lavoratori per la loro potenzialità di controllo a distanza ovvero la loro effettiva rispondenza alle esigenze tecnico-produttive o di sicurezza, così da disciplinarne, mediante l’accordo collettivo, le modalità e le condizioni d’uso. 

Alla luce di ciò, gli Ermellini ribadiscono inoltre come, per orientamento ormai consolidato, tale condotta del datore di lavoro costituisce anche un comportamento antisindacale reprimibile con la speciale tutela approntata dall’art. 28 dello Statuto del Lavoratori (ex multis Cass. Civ., Sez. Lav., 16 settembre 1997 n. 9211). Tale breve richiamo è utile per evidenziare ancora una volta come l’assenso delle rappresentanze sindacali è previsto per legge come uno dei momenti essenziali dell’intera procedura volta all’installazione degli impianti, derivando da ciò l’inderogabilità e la tassatività sia dei soggetti legittimati che della procedura autorizzativa di cui all’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori.

Allo stesso modo anche il Garante per la protezione dei dati personali ha avuto modo di affermare l’illiceità del trattamento dei dati personali mediante sistemi di videosorveglianza, in assenza del rispetto delle garanzie di cui al citato articolo 4 e nonostante la sussistenza del consenso dei lavoratori. 

Tale ricostruzione deve necessariamente trovare il suo fondamento principale nella configurabilità dei lavoratori come soggetti deboli del rapporto di lavoro: proprio tale diseguaglianza di fatto è così sufficiente a giustificare l’inderogabilità della procedura codeterminativa sancita dallo Statuto dei Lavoratori a protezione dei lavoratori, il cui consenso potrebbe essere ottenuto illegittimamente, ad esempio, anche mediante una semplice firma, all’atto di assunzione e giustificata dal timore di un mancato ingaggio, di una dichiarazione con cui si accetta l’introduzione di qualsiasi tecnologia volta al controllo.

Alla luce di tutto quanto precede, la Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione afferma che, anche a seguito delle modifiche introdotte dal Jobs Act, non possa avere “alcuna rilevanza il consenso scritto o orale concesso dai singoli lavoratori, in quanto la tutela penale è apprestata per la salvaguardia di interessi collettivi di cui, nel caso di specie, le rappresentanze sindacali, per espressa disposizione di legge, sono portatrici, in luogo dei lavoratori che, a causa della posizione di svantaggio nella quale versano rispetto al datore di lavoro, potrebbero rendere un consenso viziato”; di conseguenza, in assenza di accordo con le rappresentanze sindacali o di autorizzazione della Direzione territoriale del lavoro, “il consenso o l’acquiescenza del lavoratore non svolge alcuna funzione esimente, atteso che, in tal caso, l’interesse collettivo tutelato, quale bene di cui il lavoratore non può validamente disporre, rimane fuori dalla teoria del consenso dell’offeso, non essendo riconducibile al paradigma generale dell’esercizio di un diritto”.

Appare dunque evidente l’inversione operata dalla Corte di Cassazione rispetto alla sua precedente determinazione a seguito della sentenza Banti ed in attesa di decisioni future, in una o nell’altra direzione.