Startup e Pmi innovative: riflessioni sul requisito dell'innovatività

L’ormai noto corpus di disposizioni che formano la disciplina in oggetto – che introduce profili di specialità in materia fiscale, societaria, giuslavorastica, amministrativa, fallimentare, contabile e finanziaria – è stato pensato specificamente per facilitare le giovani imprese che operano nell’innovazione tecnologica e, allo stesso tempo, per spingere altre realtà imprenditoriali ad imboccare la medesima strada. Tuttavia, pur restando indiscussa la necessità di interventi a sostegno della crescita nel nostro Paese, non pochi dubbi sono sorti circa l’opportunità di limitare la legislazione favorevole alle imprese innovative; ciò, sia per la definizione legislativa stessa di impresa innovativa, sia per la composizione – storica, attuale e prospettica – del tessuto imprenditoriale italiano.

Le ragioni della normativa speciale dedicata alle imprese innovative

La normativa speciale in materia di startup e PMI innovative è stata adottata in attuazione della L. 221/2012, che ha convertito il Decreto Crescita 2.0 (D.l. 18/10/2012 n. 179), in seno ad un’iniziativa governativa che rispondeva alle incombenti richieste di rinnovamento e di riforme che provenivano da più fronti, specialmente dall’Unione Europea. Il Governo, infatti, in più di un’occasione individuava nell’innovazione il fattore chiave per lo sviluppo economico, da porre alla base tanto di politiche economiche finalizzate alla crescita, quanto di misure che incidessero sulla vita quotidiana degli Italiani. In quest’ottica, tra i destinatari delle novità rientra certamente la classe imprenditoriale, sia nel senso di fornire a quanti più soggetti possibile l’opportunità di trasformare il proprio talento in iniziativa imprenditoriale, sia nel senso di dare maggior spazio, nella mentalità imprenditoriale diffusa, alla ricerca del progresso ed alla cultura del rischio.

La definizione normativa e l’applicazione nella prassi

L’art. 25 del D.l. 179/2012 detta i requisiti che un’impresa deve possedere, e dichiarare in forma di autocertificazione, al momento della domanda di iscrizione presso la sezione speciale del Registro delle Imprese dedicata alle startup innovative.

Oltre ai requisiti formali, dimensionali e operativi, è previsto che le startup innovative debbano avere come oggetto sociale esclusivo o prevalente lo sviluppo, la produzione e la commercializzazione di prodotti o servizi innovativi ad alto valore tecnologico.

Inoltre, il contenuto innovativo dell’impresa è identificato con la sussistenza di almeno una delle seguenti condizioni:

1. almeno il 15% della maggior somma tra fatturato e costi annui è ascrivibile ad attività di ricerca e sviluppo (percentuale, questa, ridotta dal 20% al 15% ad opera del D.l. 76/2013);

2. la forza lavoro complessiva è costituita per almeno 1/3 da dottorandi, dottori di ricerca o ricercatori, oppure per almeno 2/3 da soci o collaboratori a qualsiasi titolo in possesso di laurea magistrale ai sensi dell'art. 4 del D.M. n. 270/2004 (così integrato con D.l. 76/2013);

3. l’impresa deve essere titolare o depositaria o licenziataria di almeno una privativa industriale relativa ad una invenzione industriale, biotecnologica, a una topografia di prodotto a semiconduttori o a una varietà vegetale ovvero sia titolare dei diritti relativi ad un programma per elaboratore originario registrato presso il Registro pubblico speciale per i programmi per elaboratore, purché tali privative siano direttamente afferenti all'oggetto sociale e all'attività di impresa (anche qui, in seguito a modifica con il D.l. 76/2013).

Per garantire la giusta continuità alle imprese che, pur avendo perso uno o più dei requisiti richiesti dalla legge per le startup innovative, possano rientrare nella categoria delle PMI (perché, ad esempio, hanno superato il sessantesimo mese di vita oppure i 5 milioni di fatturato), è previsto che esse passino alla nuova sezione del Registro senza che ciò comporti alcuna interruzione operativa né, tanto meno, dei benefici applicabili. Il c.d. Investment Compact (D.l. 24 gennaio 2015, n. 3), all’articolo 4, ha definito PMI innovativa l’impresa che:

1. sostiene spese in ricerca e sviluppo e innovazione pari ad almeno il 3% del maggior valore tra fatturato e costo della produzione;

2. impiega personale altamente qualificato (almeno 1/5 dottori di ricerca, dottorandi o ricercatori, oppure almeno 1/3 con laurea magistrale)

3. è titolare, depositaria o licenziataria di almeno un brevetto o titolare di un software registrato, come sopra precisato.

Posto il dato normativo, è intuitivo riconoscere l’“alto valore tecnologico” in iniziative che nascono in seno alla ricerca scientifica e tecnologica tradizionalmente intesa, e in questo senso ben si comprende l’interessamento anche degli incubatori certificati, specie in ragione del legame che spesso presentano con l’ambito universitario. Tuttavia, proprio in vista di tale circostanza, e delle infrastrutture di cui la ricerca necessita, è piuttosto raro incontrare l’iniziativa imprenditoriale che si emancipi del tutto da strutture industriali o accademiche.

Infatti, nella realtà si riscontrano imprese che sono iscritte nella sezione speciale del Registro, pur presentando un concetto di innovatività, per così dire, “elasticamente intesa”; si pensi, tra le altre, ad attività commerciali o artigianali che hanno introdotto un elemento di diversità rispetto al processo aziendale tradizionale del settore di appartenenza, senza di fatto produrre alcuna innovazione tecnologica strictu sensu. Alcune Camere di Commercio, invece, forniscono indicazioni in merito, come ad esempio la dicitura riportata sul sito della Camera di Milano: “solo la commercializzazione innovativa qualifica l'impresa come startup innovativa: il semplice e-commerce non è sufficiente”. Sarebbe allora opportuno, in merito, valutare i possibili rischi di un’interpretazione dei criteri alquanto difforme sul territorio nazionale.

Il tessuto imprenditoriale italiano

La compagine del tessuto imprenditoriale italiano dimostra che, senza dubbio, le imprese di dimensioni ridotte ne costituiscono la colonna portante.

Il rapporto annuale Istat del 2016, nella sezione su competitività e imprese, analizza la crescita occupazionale e di valore aggiunto in relazione, tra gli altri parametri, alle dimensioni ed all’età d’impresa. Dallo studio emerge che le imprese con meno di dieci addetti (c.d. microimprese) rappresentano oltre il 95% del sistema produttivo italiano, il 47% dell’occupazione e il 30% del valore aggiunto. Inoltre, le microimprese nate tra il 2008 e il 2013 e sopravvissute alla crisi hanno contribuito in misura più rilevante, rispetto a quelle più anziane e più grandi, alla ripresa del mercato del lavoro. 

Restringendo il campo alle innovative, secondo i dati pubblicati dal Ministero dello Sviluppo Economico aggiornati al marzo 2016, le startup iscritte alla sezione speciale del Registro delle Imprese sono 5.439, con un aumento del 5,8% rispetto a fine 2015; tuttavia, sul numero totale delle società di capitali italiane, quelle innovative rappresentano appena lo 0,35%. Infine, sotto il profilo del settore di appartenenza, circa il 72% delle startup innovative fornisce servizi alle imprese, in particolare con la produzione di software e la prestazione di consulenza informatica (30%), o svolgendo attività di ricerca e sviluppo (15,1%); solo il 18,8% opera nell’industria in senso stretto, e appena il 4,2% nel commercio. Non trovano rappresentazione, quindi, settori fondamentali della nostra economia, come quello manifatturiero.

Il caso crowdfunding, primo ampliamento alle imprese “non innovative”

Il Legislatore stesso sembra voler operare un’estensione della disciplina favorevole ad altri soggetti, a cominciare proprio dal settore che ha visto il maggior numero di interventi normativi, ovvero l’equity crowfdunding. 

Il 28 novembre 2016 la V Commissione Bilancio e Tesoro ha concluso l’esame del disegno di legge C.4127-bis, c.d. Legge di Bilancio 2017, approvando diversi emendamenti, inclusi, per quanto qui rileva, quelli presentati dagli Onorevoli Galgano e Giulietti. Pertanto, se il vaglio del Senato risulterà nell’approvazione del testo, la nuova disposizione modificherà il D.lgs 24/02/1998 n. 58 (Testo Unico della Finanza, T.U.F.) nella parte concernente la raccolta di capitali tramite piattaforme online, e nei seguenti termini: verrà eliminato ogni riferimento alle “start-up e PMI innovative”, inserendo, in sostituzione, l’esplicito richiamo alle PMI “come definite dalla disciplina dell’Unione Europea e degli organismi di investimento collettivo del risparmio o altre società che investono prevalentemente in PMI”. Cioè a dire, la categoria delle microimprese, delle piccole imprese e delle medie imprese (PMI) è costituita da imprese che occupano meno di 250 persone, il cui fatturato annuo non supera i 50 milioni di euro oppure il cui totale di bilancio annuo non supera i 43 milioni di euro.

La normativa di derivazione eurounitaria, che implica ovviamente un obbligo di conformarsi in capo agli Stati Membri, è contenuta nella “Raccomandazione della Commissione n. 361 del 6 maggio 2003, relativa alla definizione delle microimprese, piccole e medie imprese”, accompagnata da linee guida dal ultimo aggiornate nel 2015, a riprova della necessità che i legislatori curino costanti monitoraggi ed approfondimenti circa l’impatto delle leggi – anche – nelle parti che ne definiscono l’ambito di applicabilità. Sulla stessa linea metodologica, il Ministero dello Sviluppo Economico si è impegnato a rendere una Relazione annuale al Parlamento sulle startup e PMI innovative, recante un’analisi dell’impatto della normativa (a breve dovrebbe essere pubblicato il documento di studio relativo agli anni 2013-2016), oltre a costanti aggiornamenti circa i dati numerici principali che descrivono le dimensioni e la distribuzione geografica del fenomeno.

In attesa delle rilevazioni statistiche riferite ai mesi a venire, si può ragionevolmente prevedere che quest’apertura causerà un incremento nel fenomeno del crowdinvesting nel nostro Paese, e in due direzioni. Da una parte, infatti, tutte le piccole e medie imprese potranno fruire di un canale di finanziamento, alternativo rispetto a quello bancario tradizionalmente inteso, a prescindere dall’ambito di operatività; e ciò, in maggiore coerenza con il tessuto imprenditoriale descritto in precedenza. Dall’altra, la nuova “vetrina” di progetti avvicinerebbe all’equity crowdfunding anche gli investitori meno esperti, così riportando lo strumento all’alveo della finanza alternativa e partecipativa proprio delle sue origini, quanto meno culturali e socio-economiche. In altre parole, è verosimile ritenere che un business dall’oggetto meno tecnico risulterebbe maggiormente attrattivo, o comunque più comprensibile, per chi non abbia competenze specifiche in materia, così rendendo l’opportunità di investimento più facilmente valutabile.

In ultima analisi, dunque, si discute non già una revisione della normativa per se, quanto, piuttosto, la valutazione delle necessità di altri attori economici: che sia attraverso l’estensione delle leggi esistenti, o tramite la previsione di strumenti ad hoc, sarebbe forse opportuno incentivare la classe imprenditoriale intesa nel suo complesso.