Il New Deal per i consumatori e la class action europea

Lo scorso aprile la Commissione Europea ha avanzato la proposta di una riformulazione organica della disciplina vigente in materia di diritti dei consumatori nei diversi Stati Membri. L’iniziativa, battezzata dalla stessa Commissione “New Deal for Consumer”, si propone di armonizzare la disciplina vigente attraverso l’adozione di regole comuni, tese a garantire una tutela più penetrante della posizione dei consumatori.

Si tratta di una proposta complessa ed ambiziosa che ruota attorno a quattro ambiti di azione: predisporre un regime di maggiore trasparenza sui mercati online; fornire strumenti idonei a garantire una maggiore tutela tanto di carattere contrattuale che giudiziale per i consumatori; introdurre sanzioni per le violazioni delle regole a tutela dei consumatori poste dal diritto comunitario; e contrastare la differenza di qualità tra prodotti di consumo. 

La proposta ha riscontrato da subito grande interesse da parte degli operatori e dell’opinione pubblica. La massima attenzione sembra però essere stata riservata all’intenzione dell’Unione Europea di introdurre uno strumento di tutela giurisdizionale uniforme ispirato alla class action di diritto angloamericano. L’idea, per stessa ammissione della Commissione, origina dalle difficoltà incontrate dai consumatori di alcuni Stati Membri ad ottenere il risarcimento del danno patito in conseguenza della falsificazione dell’emissioni delle autovetture Volkswagen.

Tuttavia, malgrado l’idea sembrerebbe strizzare l’occhio agli Stati Uniti, la Commissione disegna uno strumento dalle caratteristiche ben diverse da quelle proprie dell’azione collettiva americana. Invero, l’azione assomiglia in maniera del tutto significativa a quella disegnata dall’art. 140bis del codice di consumo italiano come da ultimo modificato con L. n. 27 del 2012.

Più specificamente, soluzione comune ad entrambi gli strumenti dovrebbe trovarsi nella preferenza per il meccanismo dell’opt-in secondo cui a seguito dell’emissione di un provvedimento giudiziale con il quale viene identificata la classe, il consumatore che possieda i requisiti può decidere di aderire all’azione entro un termine, piuttosto che per la soluzione americana dell’opt-out per il quale l’azione vincola l’intera classe indipendentemente dal numero di consumatori che vi hanno aderito e permette invece ai singoli consumatori di abbandonare l’azione ove non vi abbiano interesse o intendano agire singolarmente.

Ulteriore elemento di contiguità tra soluzione europea e la class action dell’ordinamento italiano risiede nel ruolo riconosciuto alle associazioni. Eppure, se l’esercizio dell’azione da parte delle associazioni rappresenta solo una delle possibilità approntate dalla normativa italiana, nella proposta di direttiva le associazioni dovrebbero invece divenire gli unici soggetti legittimati.

Le similarità con il modello di class action italiana, che secondo molti ha tradito le attese, non sembrano deporre a favore della riuscita dell’ambizioso progetto sorto in seno all’Unione. In tal senso, l’utilizzo dell’azione di classe in Italia ha conosciuto un utilizzo grandemente modesto rispetto alle aspettative. Secondo alcuni, il minor successo dell’azione collettiva in Italia rispetto a quanto avviene negli Stati Uniti dovrebbe ascriversi, oltreché alla scelta per l’opt-in, ad alcune regole proprie del diritto italiano come il divieto del patto quota lite ed il principio della soccombenza.

Nello specifico, da un lato le spese di lite sembrano scoraggiare i consumatori all’esercizio dell’azione, specie laddove la pretesa abbia un valore tutto sommato modesto e, dall’altro, sarebbe proprio la possibilità di concordare una quota del risarcimento a titolo di onorario a rendere di interesse la class action per i grandi studi legali d’oltreoceano.

Vero è che i limiti alla diffusione della class action in Italia attengono a regole proprie dell’ordinamento italiano; tuttavia, non può negarsi come le stesse regole siano condivise dalla maggior parte degli ordinamenti giuridici di civil law e dunque dalla maggior parte degli stati dell’Unione Europea. In tal senso, forse, tenendo a mente l’esperienza italiana, la Commissione avrebbe potuto aggiustare il tiro strutturando la class action europea in maniera da renderla più appetibile per consumatori e professionisti legali.

Non deve però dimenticarsi che, al di là delle scelte operative adottate dalla Commissione, il punto di forza del progetto dovrebbe ravvisarsi piuttosto nell’introduzione di un’azione che in alcuni stati membri, ad oggi, non è esperibile. Ulteriore beneficio dell’iniziativa deve poi cogliersi nell’intento di armonizzare le discipline nazionali esistenti posto che, anche tra i paesi in cui l’azione di classe è prevista la disciplina è comunque suscettibile di variazioni di rilievo. Eppure, a tal riguardo, non può evitare di osservarsi come la scelta di armonizzare la materia attraverso una direttiva, in ragione della discrezionalità che attribuisce agli Stati Membri, possa risolversi in differenze di disciplina rilevanti e ben suscettibili di ostacolare il progetto.