Il Product placement nei social network: disciplina attuale e sfide future

Da qualche anno molti personaggi famosi pubblicano tramite i social media foto e video che danno visibilità a prodotti di celeberrimi marchi dietro compenso delle aziende, senza però adeguatamente informare il pubblico dell’intento promozionale. Trattasi, dunque, di vero e proprio product placement, pratica comune e normata nella televisione e nel cinema? Così pare. Non a caso, i personaggi in questione sono definiti influencer, per tali intendendosi star più o meno famose che con i propri post sarebbero in grado di influenzare le tendenze, i gusti e persino i consumi di coloro che li seguono sui social. L’attività di condivisione di contenuti privati, a valle di un contratto di sponsorship, è sempre qualificabile come attività promozionale, o solamente se retribuita dagli sponsor? I follower sarebbero dunque soggetti bisognosi di tutela al pari dei consumatori? Questi ed altri interrogativi si impongono, anche a seguito dell’istanza presentata dall’Unione Nazionale Consumatori all’autorità Antitrust: censurati i vip che non hanno dato adeguata informazione circa la vera natura di scelte che, agli occhi del consumatore medio, potrebbero sembrare dettate dalle sole qualità del prodotto.

La disciplina applicabile in via analogica

Il fatto che non esista una normativa specifica per questa nuova forma di pubblicità online, come molti operatori sostengono, non significa che questa sfugga a qualsiasi forma di regolamentazione. In quest’ottica, si ritiene applicabile in via analogica la normativa del Codice del Consumo, in forza della quale viene sanzionato il professionista che ometta informazioni rilevanti di cui il consumatore medio necessita al fine di prendere una decisione consapevole.

È considerata ingannevole una pratica commerciale che nella fattispecie concreta, tenuto conto di tutte le caratteristiche e circostanze del caso, nonché dei limiti del mezzo di comunicazione impiegato, omette informazioni rilevanti di cui il consumatore medio ha bisogno in tale contesto per prendere una decisione consapevole di natura commerciale e induce o è idonea ad indurre in tal modo il consumatore medio ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso.

Una pratica commerciale è altresì considerata un’omissione ingannevole quando un professionista occulta o presenta in modo oscuro, incomprensibile, ambiguo o intempestivo le informazioni rilevanti di cui al comma 1, tenendo conto degli aspetti di cui al detto comma, o non indica l’intento commerciale della pratica stessa qualora questi non risultino già evidenti dal contesto nonché quando, nell’uno o nell’altro caso, ciò induce o è idoneo a indurre il consumatore medio ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso.

Questo è quanto stabilito dai primi due commi dell’articolo 22 del D.lgs. 206/2005, Codice del Consumo, che secondo i vertici dell’Unione Nazionale Consumatori deve essere applicato anche per regolare quelle nuove forme di pubblicità che si sono diffuse sui social network.

Certamente risulta utile fare riferimento a quanto elaborato dall’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria (IAP). In particolare, nel giugno 2016 tale istituto ha pubblicato la Digital Chart, con l’obiettivo di svolgere una ricognizione sulle più diffuse forme di comunicazione commerciale nella rete e nel mondo digitale in genere. La Carta prevede che, come ogni altra comunicazione commerciale, i contenuti pubblicitari veicolati tramite i social network e i siti di content sharing debbano rispettare le norme contenute nel Codice di Autodisciplina. Più specificamente, si richiama l’articolo 7, ai sensi del quale la comunicazione commerciale deve essere sempre riconoscibile come tale. Nei mezzi e nelle forme di comunicazione commerciale in cui vengono diffusi contenuti e informazioni di altro genere, la comunicazione commerciale deve essere nettamente distinta per mezzo di idonei accorgimenti. Si evince come, secondo la Digital Chart, deve essere chiaramente manifesta la natura promozionale dei contenuti al di fuori delle pagine o canali ufficiali degli inserzionisti, affinché gli utenti siano posti in grado di riconoscerli come comunicazione commerciale.

A ben vedere, anche su questo tema la rete ha in un certo senso provveduto ad autoregolamentarsi. Infatti, alcuni blogger, quando ricevono in regalo campioni dalle aziende affinché possano provarli e mostrarli al loro fedelissimo gruppo di sostenitori, ne danno indicazione apponendo hashtag e diciture come “ad”, “sponsorizzazione” o “pubblicità” in calce a video e fotografie.

Necessario un intervento del Legislatore?

Altro e opposto orientamento, ritiene che il Codice elaborato dagli Istituti di autodisciplina, oltre ad essere poco efficace perché applicabile solo a chi decide di aderire all’IAP, in virtù di quanto stabilito dalla Direttiva sui Servizi di Media Audiovisivi, abbia valore solo per gli editori. Pertanto, poiché i social network non sono degli editori bensì dei contenitori di contenuti elaborati da terzi, essi non devono sottostare alle stesse regole previste per le televisioni o giornali e di conseguenza non sono sanzionabili neppure dall’AGCOM.

A voler seguire questa traccia, è opportuno sottolineare come la disciplina prevista dal Codice del Consumo sia inadeguata per la regolamentazione dei social network. Tale Codice, infatti, non prevede le modalità specifiche con le quali i blogger o influencer devono informare il pubblico e i followers dell’intento promozionale delle loro pubblicazioni. Fino ad oggi ciascun soggetto che voglia inserire un contenuto promozionale è libero di scegliere i modi attraverso cui informare i destinatari della pubblicità, creando così difformità e scarsa tutela effettiva dei consumatori.

Inoltre, il fatto che l’attività promozionale sia svolta attraverso l’utilizzo di profili personali, è idoneo a far credere ai followers che si tratti di riflessioni personali e non di pubblicità, a differenza dei classici canali utilizzati per fini pubblicitari come la televisione. Infatti in quest’ultimo caso il destinatario medio della pubblicità è conscio del fine reale della comunicazione.

Ulteriore aspetto che merita di essere menzionato riguarda la non sanzionabilità delle società che si avvalgono del tipo di pubblicità in esame. In particolare, pur esistendo un regolare contratto di sponsorship con i personaggi famosi o influencer, in realtà, non comunicando l’intento promozionale al pubblico, le società usufruiscono di pubblicità occulta e pongono in essere un atto di concorrenza sleale che però non è sanzionabile in quanto non vi è nessuna norma che la regola o vieta.

I sostenitori di tale tesi ritengono che la mancanza di una disciplina specifica per la pubblicità occulta messa in atto dai cosiddetti influencer, può quindi essere considerata una lacuna normativa da colmare con un intervento tempestivo del legislatore. Ad oggi, tuttavia, né il Parlamento italiano né quello europeo si sono occupati direttamente di questo fenomeno.

Analisi comparativa

Ad oggi, solamente le autorità competenti dei paesi di Common law, ovvero Stati Uniti e Regno Unito, sono intervenute al fine di regolamentare questa pratica diffusa nei social network e per tutelare i consumatori. Infatti, in tali Paesi, vigendo il principio dello stare decisis, è più facile intervenire per regolare quei settori in continua evoluzione come quello della pubblicità, nel quale, invece, i paesi di Civil law difficilmente riescono a stare al passo con i cambiamenti.

In Inghilterra è previsto che le comunicazioni commerciali debbano essere chiaramente identificabili come tali e che le aziende non possano fare credere che gli influencer promuovano il loro brand agendo come semplici consumatori, pertanto il fine commerciale dell’inserimento di un prodotto in un post pubblicato sui social network deve essere chiaro e comprensibile per il consumatore medio.

Negli Stati Uniti, la Federal Trade Commission, che si occupa di promuovere la concorrenza e difendere i consumatori, ha stabilito sette regole che aziende, agenzie di comunicazione ed influencer devono rispettare per ogni campagna pubblicitaria intrapresa sui social network. Tra queste si fa riferimento all’indicazione della dicitura “sponsorizzato” nella didascalia, in modo che tale etichetta sia ben distinguibile e facilmente comprensibile dai consumatori soprattutto quelli meno protetti come bambini e anziani.

***

In conclusione, si può senza dubbio affermare che, poiché il mondo dei social network presenta delle caratteristiche che lo differenziano nettamente dagli altri mezzi di comunicazione pubblicitaria, è necessario provvedere all’emanazione di una disciplina specifica. È auspicabile che tale normativa coinvolga direttamente i social network affinché essi si dotino di modalità di supervisione dei contenuti in essi pubblicati idonei a individuare facilmente le eventuali violazioni di legge. Nell’attesa che questa disciplina sia effettivamente posta in essere, è sicuramente possibile applicare in via analogica la disciplina prevista per il product placement nel cinema e nella televisione. Questo, al fine di non lasciare privi di tutela il pubblico cui si rivolgono gli influencer