Jobs Act: Tutele Crescenti e il dubbio di costituzionalità

Il traballante sistema di pesi e contrappesi che ha caratterizzato, a partire dalla entrata in vigore dello statuto dei lavoratori del 1970, il mondo delle relazioni industriali italiane è definitivamente crollato.

Sfiancato nel corso del tempo da continui e scientifici interventi tesi a indebolirlo, ha esalato l’ultimo respiro con la recente approvazione dei nuovi decreti delegati del Jobs Act governativo.

La riforma opera ad ampio raggio coinvolgendo il momento della maternità (che viene agevolata e incoraggiata in ragione di una maggiore fruibilità dei permessi) e della perdita del lavoro (attraverso la introduzione di tre nuovi strumenti – Naspi , AsDi e DisColl – rivolti a chi ha perso il lavoro, anche di collaborazione, e possegga specifici requisiti reddituali e  contributivi).

Individuata anche una dead-line (1 Gennaio 2016) entro la quale sarà possibile per l’imprenditore “pentito” trasformare il contratto di collaborazione o a partita IVA fraudolento in vincolo a tempo indeterminato.

Questa possibilità, che nel disegno dell’esecutivo dovrebbe soddisfare le aspettative dell’elettorato progressista, è accompagnata dalla abolizione di alcune forme di contratto precario come, oltre a quella dei co.co.co., quelle del job sharing e della associazione in partecipazione.

Discorso diverso per le pubbliche amministrazioni e istituzioni equiparate, che avranno a disposizione un anno in più (e probabilmente un nuovo riferimento legislativo in via di approvazione) per regolamentare il settore del tempo determinato.

Le principali novità della riforma riguardano tuttavia lo svolgimento del rapporto di lavoro nella sua interezza, con le nuove regole in entrata, in corso di esecuzione e in uscita.

Come ripetutamente annunciato, viene introdotto quale modello contrattuale “prevalente” il contratto a tempo indeterminato a tutele cd. “crescenti”.

La natura “indeterminata” del vincolo contrattuale, che dovrebbe godere di un ulteriore appeal in ragione del nuovo incentivo previdenziale, risulterebbe mitigata dalla possibilità, per l’impresa, di recedere senza rischiare la reintegrazione del dipendente e con rischi economici piuttosto limitati.

I due testi principali promossi dall’esecutivo disegnano un nuovo sistema che potrebbe prestare il fianco a qualche osservazione in tema di costituzionalità delle norme a breve in vigore.

Il principio di eguaglianza dettato dall’art. 3 della nostra Carta Costituzionale è di semplice interpretazione:

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Dinanzi ad un simile precetto, chiaro sembra l’obbligo per lo Stato di incoraggiare meccanismi normativi che originino l’uguaglianza dei cittadini, determinino medesime condizioni di partenza, scoraggino discriminazioni.

Tralasciando ogni considerazione di opportunità politica sull’idea del nuovo mondo del lavoro che il nuovo governo sembra perseguire e sui pilastri che attorno a questa idea ha edificato (facilità di accesso con contratti a tempo determinati acausali o a tempo indeterminato senza reintegra e con risarcimenti per recesso contigentati), è praticamente certo che il nuovo corpo normativo susciterà aspre polemiche tra gli operatori, così come già sta accadendo in queste ore.

Le “tutele crescenti” istituzionalizzano il cosiddetto “doppio binario”, ovvero la circostanza che due categorie di lavoratori siano destinatari di diverse garanzie per il solo motivo di essere stati assunti prima o dopo una stessa data.

Per coloro, infatti, che alla data di entrata in vigore dei decreti potranno contare su un inquadramento a tempo indeterminato, continueranno ad applicarsi le vecchie tutele, già pesantemente ammorbidite da innumerevoli riforme succedutesi nel breve periodo.

Solo i nuovi assunti saranno soggetti alle nuove tutele attenuate.

A questo elemento di differenziazione tra soggetto e soggetto concernente, in sostanza, la quantificazione della tutela indennitaria (visto che il ricorso alla reintegra era, come segnalato, già stato fortemente limitato in ultimo dalla Legge cd. Fornero), si aggiunge una nuova prospettiva interpretativa che, sempre in ambito di costituzionalità, potrebbe originare ulteriori problemi.

Quella che riguarda la parità delle posizioni all’interno di un medesimo sistema normativo.

I ripetuti ritocchi legislativi che negli ultimi anni hanno caratterizzato, a partire dal 2010 (L. 183), la materia del lavoro, ci hanno abituato a considerare circostanza ordinaria (sebbene ai sensi dell’art. 3 Cost. normale forse non lo sarebbe) la considerazione, quale criterio per l’applicazione di tutele diverse, di un semplice termine di cesura temporale (ancora oggi pendono migliaia di cause aventi ad oggetto l’applicazione della tutela “reale” statutaria “piena” prevista per il licenziamento illegittimo).

Con le nuove disposizioni però, Il profilo che più preoccupa, è proprio quello per così dire “endocontrattuale”.

Il meccanismo delle “tutele crescenti” istituzionalizza la disparità di trattamento tra lavoratori che prestino il loro apporto alla azienda di appartenenza nel medesimo contesto normativo nazionale, magari con applicazione del medesimo CCNL, stessa qualifica e mansione.

Ciò solo per effetto della presenza di un elemento certamente di rilievo, ma che oggi diventa unico criterio determinante l’importanza del risarcimento economico, che quindi l’esecutivo sembra suggerire per misurare il valore intrinseco che il nuovo sistema riconosce ad ogni rapporto di lavoro: l’anzianità lavorativa, in base alla quale viene graduata l’entità del risarcimento.

La durata del rapporto come sola connotazione di rilevanza ai fini della tutela del lavoratore o del potenziale rischio aziendale.

C’è da chiedersi, sulla scorta dell’esperienza processuale, se il criterio scelto, nella esclusione totale di ogni discrezionalità per il magistrato decidente (anche integrato con altri diversi e specifici caso per caso), sia quello giusto.

Sarebbe salutare domandarsi come questo assunto si concili con la tendenza, tutta italiana e ripetutamente segnalata nei tribunali del lavoro, di superare l’ostacolo normativo con l’uso frequente di strumenti alternativi, anch’essi previsti dall’ordinamento e di semplice estensione.

Strumenti, nonostante l’abolizione dei contratti co.co.co e co.co.pro di cui il governo si fa vanto, in gran parte ancora presenti e in buona salute (per esempio le somministrazioni di lavoro).

Una riflessione forse andrebbe compiuta per non rischiare che l’impegno riformatore si arresti dinanzi alla violazione di diritti sensibili.

Il nuovo sistema, così come si presenta, appare, al netto di ogni valutazione di parte, oggettivamente sbilanciato in favore della azienda e potenzialmente lesivo di precetti costituzionali, con il risultato che l’afflato riformatore potrebbe essere soffocato per ragioni di pura architettura giuridica.

Una delle tracce di questa pericolosa “fretta” normativa, insieme alla facoltà per l’impresa di procedere al demansionamento del lavoratore, risiede nella nuova regola che esclude la conservazione del rapporto di lavoro, pertanto la reintegrazione, nel caso in cui il magistrato individui la natura sproporzionata della sanzione del licenziamento rispetto alla infrazione accertata in corso di giudizio.

Di fatto, ogni qualvolta il dipendente incorresse in mancanze “veniali”, l’azienda potrebbe procedere al licenziamento (anche scientemente mettendo in conto il rischio di doverlo risarcire secondo anzianità di servizio) senza rischiare il ripristino del rapporto.

Prevedere che anche in questa ipotesi la massima tutela del dipendente sia quella risarcitoria, equivale senza dubbio a diffondere un messaggio di libera e discrezionale recedibilità dal rapporto di lavoro e, contestualmente, a porre a rischio di costituzionalità il nuovo precetto di legge.