IL MONOPOLIO DI GOOGLE SUL DIRITTO ALL’OBLIO: CGE CAUSA C-131/12

Il 13 ottobre 2014 è stata pubblicata la bozza della “Dichiarazione dei diritti di internet”, elaborata dalla Commissione presieduta da Stefano Rodotà in seno alla Camera dei deputati, sulla quale è in corso la consultazione pubblica.

Nell’ambito dei diversi diritti riconosciuti in questo documento merita di essere menzionato il “diritto all’oblio”, di cui – quasi in concomitanza con l’esito dei lavori della Commissione – si è discusso a Bruxelles con l’Advisory Council di Google.

Quello che è stato definito come il “tour europeo” di Google, avviato dal mese di settembre, presso le principali capitali europee, si è articolato in una serie di incontri con esperti, cittadini e istituzioni nei quali si è discusso della sentenza resa dalla Corte di Giustizia Europea il 13 maggio 2014, in merito al diritto all’oblio.

Si tratta del diritto ad essere dimenticati nella memoria dei motori di ricerca, quando determinati fatti o informazioni non abbiano più rilevanza per il proprio contenuto ovvero per il tempo trascorso dall’atto della raccolta.

L’art. 10 della succitata bozza riconosce tale diritto in capo a ogni individuo, cui è riconosciuta la possibilità di ottenere la cancellazione dei propri dati dagli indici dei motori di ricerca; se si tratta di persone note o che svolgono funzioni pubbliche, il diritto può essere esercitato solo in relazione ai dati irrilevanti per l’attività svolta o le funzioni esercitate.

Il diritto all’oblio, in realtà, è piuttosto risalente: a onor del vero, ben prima dell’avvento della società digitale, questa prerogativa di riservatezza veniva esercitata nei confronti di editori o giornalisti, affinché provvedessero a eliminare dai propri archivi notizie lesive dell’onore e della reputazione quando i fatti di cronaca non fossero più attuali. Il diritto all’integrità della propria reputazione, di notevole peso, soffriva, tuttavia, di un contrappeso molto forte: il diritto all’informazione.

Il delicato equilibrio della bilancia non è sfuggito, difatti, alla Corte di Giustizia Europea secondo la quale: “tale equilibrio può nondimeno dipendere, in casi particolari, dalla natura dell’informazione di cui trattasi e dal suo carattere sensibile per la vita privata della persona suddetta, nonché dall’interesse del pubblico a ricevere tale informazione, il quale può variare, in particolare, a seconda del ruolo che tale persona riveste nella vita pubblica”.

La Dike che tiene in mano la bilancia, per determinare la prevalenza del diritto all’oblio o all’informazione nell’universo digitale, non è – come potrebbe ritenersi – un’autorità o istituzione, nazionale o europea, ma il gestore del motore di ricerca.

Secondo la Corte, difatti, le ricerche effettuate nei motori di ricerca – quali Google – rappresentano ipotesi di trattamento dei dati personali di cui, in ossequio alla direttiva 95/46/CE, è responsabile il gestore; pertanto è quest’ultimo a essere chiamato in causa ogni qualvolta un utente eserciti il proprio diritto all’oblio.

A ben vedere, la Corte, lungi dal configurare un dovere, ha dato adito, piuttosto, alla creazione di un vero e proprio monopolio. Google ha colto la palla al balzo istituendo un apposito Advisory Council “on the right to be forgotten”, chiamato a valutare – in piena discrezionalità – il rapporto tra diritto all’oblio e all’informazione nel caso concreto.

La parola al Garante, agli utenti e – date le recenti tendenze aziendali – al Privacy Officer!