Inquadramento giuridico delle criptovalute: approcci normativi e criticità

In risposta all’interpello presentato da un contribuente, l’Agenzia delle Entrate ha recentemente precisato che i Bitcoin (e più in generale le criptovalute) hanno natura assimilabile quella della moneta estera. Come tutto ciò che ruota in torno al fenomeno delle criptovalute, il chiarimento fornito dall’Agenzia ha da subito destato grande interesse ed è stata riportata dalla maggior parte dei media. Eppure, la portata di tale intervento sembra tutt’altro che risolutiva, contribuendo invece ad alimentare l’incertezza attorno alla qualificazione giuridica delle nuove monete virtuali.

Infatti, quella di moneta estera è solamente l’ultima delle qualificazioni proposte nel nostro ordinamento con riguardo alle criptovalute. L’ultima, ma non l’unica. In tal senso, la moneta virtuale è stata dapprima accostata da Banca d’Italia ad un metodo di pagamento. Successivamente, in un’ordinanza del Tribunale di Roma, con la quale veniva disposto il sequestro di un sito internet che offriva Bitcoin, la valuta virtuale veniva assimilata ad un prodotto finanziario, mentre, come anticipato, il più recente intervento dell’Agenzia delle Entrate ne suggerisce la qualificazione di valuta estera.

Se però la settorialità degli interventi non fa altro che contribuire all’incertezza che permane sul fenomeno, l’origine del problema va ricondotto alla carenza di una qualificazione normativa delle criptovalute. A tal proposito non può certo ignorarsi che nel nostro ordinamento una definizione del fenomeno esiste già da maggio 2017. La valuta virtuale è normativamente definita all’art. 1, c. 2, qq) del D. Lgs. N. 90/2017, come “la rappresentazione digitale di un valore, non emessa da una banca centrale o da un’autorità pubblica, non necessariamente collegata a una valuta avente corso legale, utilizzata come mezzo di scambio per l’acquisto di beni e servizi e trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente”.

Non può evitare di notarsi in questa sede, come la definizione non fornisca indizi utili ai fini di una qualificazione, rivelandosi pertanto del tutto inidonea a fornire indizi su quale possa essere, al di là dell’applicabilità della normativa antiriciclaggio, la disciplina applicabile alla valuta virtuale. A tal riguardo, deve però precisarsi che la problematica in parola non è esclusiva dell’ordinamento italiano. Invero, la mancanza di una qualificazione cogente circa le criptovalute appare piuttosto una problematica di carattere globale.

Non esiste una disciplina organica delle criptovalute neppure negli Stati Uniti dove però lo scambio di valuta virtuale è soggetto a regolamentazione. In tal senso, a luglio 2017, la U.S. Commodity Futures Trading Commission ha autorizzato la piattaforma Ledger X ad esercitare attività di trading su criptovalute. Inoltre, a seguito del caso DAO, la possibilità di applicare la normativa relativa ai prodotti finanziari anche ai token offerti in ambito di Initial Coin Offering (c.d. ICO) non è esclusa ma deve valutarsi caso per caso.

In Europa, invece, in mancanza di una regolamentazione a livello di Unione, dove le istituzioni continuano a manifestare una certa diffidenza, manca, al di là della già menzionata qualificazione operata dalla Corte di Giustizia nel giudizio Skatteverket v. Hedqvist (C-264/14), una regolamentazione organica del fenomeno criptovalute. Negli Stati Membri, invece, la disciplina della moneta virtuale è parziale o settoriale ove non, addirittura, del tutto assente. Al di là, dell’Italia, di cui si è già detto, si registra un certo interesse per il profilo fiscale del fenomeno anche in Spagna e Svezia. Se nel primo paese la tassabilità della moneta virtuale è determinata dall’interpretazione analogica delle normative vigenti in tema di gioco e scommesse, nel paese scandinavo le autorità fiscali hanno precisato che le criptovalute non sono qualificabili come monete. A malta è invece di recentissima approvazione un disegno di legge su blockchain e valute virtuali.

A parte gli esempi già citati, nella maggior parte dei paesi una regolamentazione compiuta del fenomeno criptovalute è quasi del tutto mancante.  La circostanza, almeno in parte, sembra legata al sospetto con cui le istituzioni guardano alla valuta virtuale ritenuta dai più idonea ad incrementare i rischi di riciclaggio e finanziamento al terrorismo. Eppure, al di là dei rischi che qualcuno ritiene essere connaturati alla moneta virtuale il pericolo maggiore dovrebbe invece rinvenirsi nel fatto che la mancanza di una regolamentazione organica e l’incertezza che ne discende si tramutino in ostacolo per lo sviluppo delle potenzialità applicative della tecnologia che ne sta alla base.

Se infatti, una delle applicazioni di maggiore interesse della blockchain è rappresentata dallo smart contract, non può ignorarsi come la sorte di tale strumento appaia inesorabilmente legata a quella della valuta virtuale. Neppure può essere sottovalutata la strettissima sinergia esistente tra i due strumenti nelle dinamiche operative delle ICO.

Sorprende allora che all’altissimo livello di interesse che le istituzioni di ogni paese stanno manifestando per le più svariate applicazioni della tecnologia blockchain corrisponda altrettanto sospetto da parte delle stesse verso le criptovalute. Infatti, molte delle sue applicazioni non solo coinvolgono la, ma piuttosto sembra non possano proprio prescindere dalla moneta virtuale. E’ quindi evidente che proprio il deficit di regolamentazione del fenomeno sia suscettibile di rappresentare un ostacolo per lo sviluppo dell’intero comparto blockchain.

Peraltro, proprio in ragione della spiccata attitudine a varcare i confini spaziali che appartiene generalmente alle applicazioni della blockchain sarebbe forse più opportuna la predisposizione di una regolamentazione di carattere internazionale onde eliminare gli ostacoli potenzialmente rappresentati dalle diverse qualificazioni operate dai singoli stati. Un simile approccio, oltretutto, sembra consigliabile anche in ragione della naturale attitudine alla circolazione delle criptovalute.