Diffamazione a mezzo Facebook: esclusa senza l’accertamento dell’indirizzo IP

Con la recentissima pronuncia n. 5352 del 5 febbraio 2018, la Quinta Sezione della Corte di Cassazione ha affermato il principio per cui la fattispecie di diffamazione on line ex art. 595, comma III, cod. pen. – non può ritenersi integrata laddove non risulti accertato l’indirizzo IP – Internet Protocol – di provenienza del messaggio offensivo.

Nel caso oggetto di scrutinio, la Corte territoriale aveva emesso una sentenza di condanna, confermativa di quella resa dal Giudice di prime cure, nei confronti dell’imputata per aver offeso la reputazione di un sindaco attraverso un messaggio diffamatorio postato sul social network Facebook.

Più nello specifico, il Giudice del gravame aveva fondato il suo convincimento su indizi ritenuti – ex art. 192 c.p.p. – gravi, precisi e concordanti, quali: la provenienza del messaggio da un profilo che riportava il nome e il cognome dell’imputata; la natura dell’argomento di discussione del forum – riguardante pretese di lavoratori di verosimile interesse della donna, sindacalista all’epoca dei fatti; la mancanza di una pregressa denuncia per furto di identità o abusivo utilizzo del suo nome e cognome ad opera di terzi.

Avverso la predetta sentenza l’imputata ha proposto ricorso per Cassazione lamentando la non convergenza degli indizi assurti a prova, stante la mancata identificazione dell’indirizzo IP di provenienza del post, la mancata conoscenza della persona del sindaco, l’assenza di qualsiasi contrasto con il predetto e il diverso ambito di interesse della attività sindacale svolta – nel settore dei lavoratori chimici, elettronici e tessili – rispetto ai lavoratori di cui al forum – appartenenti alla categoria dei lavoratori c.d. socialmente utili –.

Più precisamente, la ricorrente si è doluta dell’omesso accertamento dell’indirizzo IP di provenienza – codice numerico che, all’atto della connessione di una data postazione dal servizio telefonico, viene assegnato in via esclusiva ad ogni dispositivo elettronico, onde individuare il titolare della linea – della frase diffamatoria, così come della mancanza di riscontri probatori rinvenibili nei cd. file di log, contenenti tempi e orari della connessione.

Tanto premesso, la Suprema Corte, con motivazione stringata ma chiara ed esauriente, ha ritenuto fondate le esposte ragioni di doglianza, rilevando come l’impugnata sentenza d’appello aveva mancato di ‘‘confrontarsi’’ con la tesi defensionale per cui, a prescindere dal nickname utilizzato, l’accertamento dell’IP di provenienza è di sicura utilità ai fini della individuazione del titolare della linea telefonica associata. A tale ‘‘confronto’’ – hanno soggiunto gli ermellini –, è sfuggita anche la dedotta carenza istruttoria sui tempi e sugli orari della connessione.

Al lume delle superiori considerazioni i giudici di legittimità hanno concluso statuendo che ‘‘la sentenza di appello, non confrontandosi con tutte le argomentazioni antagoniste evidenziate nei motivi di gravame, abbia optato per una motivazione insufficiente circa il prospettato dubbio relativo all’eventualità che terzi abbiano potuto utilizzare il nickname dell’imputata, mandando il messaggio sul forum di discussione’’.